Ancona Città della Salute/5: la città è sana se la salute diventa bene comune

Nelle quattro precedenti puntate del viaggio nella sanità cittadina con Claudio Maffei, abbiamo parlato nell’ordine: di Ancona che “perde” i suoi ospedali che vengono portati fuori della città, della Casa della Comunità che nascerà al vecchio Umberto I, dell'evoluzione dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria “di Ancona” diventata “delle Marche” e delle prospettive che riguardano l’INRCA, un’altra “istituzione ” sanitaria della città in cui si intrecciano una componente assistenziale e una di ricerca. C'è una nuova puntata, nella quale ci soffermiamo sul concetto di “città sana”.

Cosa voglia dire essere (o provare a essere) “città sana” lo troviamo in un “manifesto per l’impegno sulla salute nelle città come bene comune” la cui stesura e revisione è stata realizzata di recente grazie al contribuito di oltre 200 esperti e 36 tra Istituzioni, enti, università, società scientifiche, associazioni pubbliche e private tra cui l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani. Questo documento aggiorna un precedente documento del 2016, aggiornamento reso necessario dalla esperienza della pandemia. Diciamo subito che Ancona, e questo è un merito della attuale Amministrazione, fa già parte della Rete Italiana Città Sane - OMS e anzi ha organizzato lo scorso 9 e 10 giugno 2022 il XIX Meeting nazionale di questa rete dal titolo “La salute tra esperienza e innovazione: dalle buone pratiche alle nuove sfide”. Del resto Emma Capogrossi, attuale assessore alle Politiche sociali e Sanità, è il presidente della Rete italiana Città Sane.

Vediamo di capire che cosa si intende per città sana, healthy city, secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della sanità). Una città sana è conscia dell’importanza della salute come bene collettivo e di conseguenza mette in atto delle politiche chiare per tutelarla e migliorarla. La salute da bene individuale diventa bene comune che come tale diventa un obiettivo dei cittadini, dei sindaci e degli amministratori locali, che devono proporsi come garanti di una sanità equa, in cui la salute della collettività è considerata più come investimento e come risorsa che come un costo.

Il Manifesto di recentissima approvazione citato prima delinea dieci punti chiave che possono guidare le città a studiare ed approfondire i determinanti della salute nei propri contesti e a fare leva su di essi per escogitare strategie per migliorare gli stili di vita e lo stato di salute dei cittadini, ovvero:

1) ogni cittadino ha diritto a una vita sana ed integrata nel proprio contesto urbano. Bisogna rendere la salute il fulcro di tutte le politiche urbane;
2) assicurare un alto livello di alfabetizzazione e di accessibilità all’informazione sanitaria per tutti i cittadini e inserire l’educazione sanitaria in tutti i programmi scolastici con particolare riferimento ai rischi per la salute nel contesto urbano;
3) incoraggiare stili di vita sani nei luoghi di lavoro, nelle comunità e nei contesti familiari;
4) promuovere una cultura alimentare e la lotta alla povertà alimentare;
5) ampliare e migliorare l’accesso alle pratiche sportive e motorie per tutti i cittadini, favorendo lo sviluppo psicofisico dei giovani e l’invecchiamento attivo;
6) sviluppare politiche locali di trasporto urbano orientate alla sostenibilità ambientale e alla creazione di una vita salutare;
7) creare iniziative locali per promuovere l’adesione dei cittadini ai programmi di prevenzione primaria, con particolare riferimento alle malattie croniche, trasmissibili e non trasmissibili;
8) intervenire per prevenire e contenere l’impatto delle malattie trasmissibili infettive e diffusive, promuovendo e incentivando i piani di vaccinazione, le profilassi e la capacità di reazione delle istituzioni coinvolte con la collaborazione dei cittadini;
9) considerare la salute delle fasce più deboli e a rischio quale priorità per l’inclusione sociale nel contesto urbano;
10) studiare e monitorare a livello urbano i determinanti della salute dei cittadini attraverso una forte alleanza tra Comuni, Università, Aziende Sanitarie, centri di ricerca, industria e professionisti.

Ancona, come già detto, è impegnata attivamente in una politica cittadina in questa direzione. Nelle pagine del sito del Comune dedicate alla Rete Città Sane si trovano tutte le iniziative promosse in tale ambito a testimonianza della vitalità di questa attenzione. C’è però ovviamente ancora molto da fare. Faccio qualche esempio (tre) che potrebbero aiutare questo percorso di ulteriore miglioramento. Il primo esempio riguarda il tema della comunicazione, mentre gli altri due riguardano specifici temi di salute.

Il primo punto sulla comunicazione parte dal tema dell’inquinamento dell’aria. Questo è diventato centrale nel dibattito anche politico nella città. I livelli di alcuni inquinanti è più alto in Ancona non di quelli previsti dalla norma, ma di quelli previsti come “sicuri” dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, con un conseguente importante impatto in termini di “decessi anticipati” in persone con malattia cronica. Di fronte a questa problematica il Comune si è posto in maniera difensiva senza, per quello che mi consta, fare due iniziative di tipo comunicativo che potevano farlo uscire dall’angolo in cui lo hanno messo i dati e le “accuse” motivate che vengono da gruppi attenti alle problematiche ambientali e da singoli cittadini esperti. La prima è comunicare con i cittadini in modo da far emergere che gli studi alla base della stima di questi rischi il Comune li ha economicamente sostenuti, li ha resi disponibili nel sito “Ancona respira” dedicato al Progetto Inquinamento Ambientale e intende utilizzarli nelle proprie scelte di governo. La seconda riguarda la comunicazione istituzionale. Sembra che la vicenda dell’inquinamento atmosferico di Ancona sia una questione del tipo “il Sindaco e la sua amministrazione contro tutti”, quando è evidente che la complessità del tema richiede il coinvolgimento degli altri Enti istituzionalmente competenti e soprattutto dotati di quelle risorse professionali necessarie ad analizzare una criticità di tipo ambientale nei suoi riflessi sulla salute dei cittadini. Si tratta allora di mettere il Sindaco e l’Amministrazione in condizione di prendere i provvedimenti necessari o comunque opportuni con il supporto di quanti sono capaci di valutare e monitorare i dati ambientali, e cioè l’ARPAM (Agenzia Regionale per l’Ambiente delle Marche), e di incrociarli con l’analisi dei dati sanitari, e cioè sia l’Azienda Sanitaria Territoriale (AST) prima Azienda Sanitaria Unica Regionale che l’ARPAM che la Agenzia Sanitaria Regionale (ARS). Per cui andava (e va) subito stabilita una relazione istituzionale coi tre enti (Regione con l’ARS , AST e ARPAM) per procedere a questa valutazione integrata e alla messa a regime di un sistema di monitoraggio e di gestione continuo del problema perché uno studio una tantum non ha senso.

Quanto ai due nuovi temi di salute da affrontare in una logica da città sana, il primo è quello di rendere Ancona una comunità amica delle persone con demenza. La demenza è un enorme problema sia per le persone che ne sono affette che per le persone che le supportano. Ancona ha anche come risorsa l’INRCA che sui temi dell’invecchiamento fa ricerca e non solo assistenza. Perché non promuovere allora un progetto che la adatti ad essere una città dementia friendly, per dirla ancora una volta in inglese? Per capire cosa voglia dire questa espressione basta fare riferimento alla figura (vedi) presa dal sito Dementia Friendly Italia, una iniziativa della Federazione Alzheimer Italia. Di recente è stata fatta una mozione per impegnare in questo senso la Amministrazione Comunale e quindi ci sono tutte le premesse per partire.

Figura Cosa vuol dire far diventare una città una comunità amica delle persone con demenza (fonte: Federazione Alzheimer Italia)

Il secondo tema di salute parte da una annotazione su cosa non è una città sana: non è una città che in occasioni straordinarie offre esami e visite gratuite ai cittadini. Questa è al massimo beneficienza istituzionale e le istituzioni non fanno beneficienza una tantum, ma danno una risposta tutti i giorni. E in questo senso sarebbe straordinario se il Comune coordinasse una iniziativa per mettere in rete e potenziare gli ambulatori solidali, quelli che assistono gratuitamente i cittadini in difficoltà.

Insomma, per rendere Ancona una città sana c’è ancora tanto da fare.

 

 

 

 


Ancona Città della Salute/4: Nuovo INRCA, cantiere aperto non solo in senso edilizio

Il reportage di Claudio Maffei sul mondo della sanità anconetana giunge alla quarta e ultima puntata. Nelle tre precedenti, abbiamo parlato nell’ordine di Ancona che “perde” i suoi ospedali che vengono portati fuori della città, della Casa della Comunità che nascerà al vecchio Umberto I e della evoluzione dell’Azienda Ospedaliero-Unversitaria “di Ancona” diventata “delle Marche”. Questa volta tocca all’INRCA, una “istituzione ” dalle molte particolarità che probabilmente sono note solo a una piccola parte dei cittadini e a una parte appena più consistente degli amministratori. Ricostruiamole.

L’INRCA è innanzitutto un Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS, qua gli acronimi abbondano) il che vuol dire che svolge per compito istituzionale una attività di ricerca oltre che assistenziale e che ha, oltre agli altri Direttori soliti (Generale, Sanitario e Amministrativo) anche un Direttore Scientifico e un Consiglio di Indirizzo e Verifica. In quanto IRCCS, l’INRCA risponde sia alla Regione Marche (di gran lunga il suo principale finanziatore) che al Ministero della Salute ed è anche l’unico IRCCS in Italia ad occuparsi di anziani.

L’INRCA si caratterizza poi per altri aspetti. Ha una dimensione multiregionale, avendo sedi ospedaliere (piccole) con attività di area geriatrico-riabilitativa a Casatenovo in Lombardia (provincia di Lecco) e in Calabria a Cosenza. Ha inoltre più sedi di attività nelle Marche perché, oltre ad Ancona di cui parleremo dopo, ha un presidio ospedaliero di piccole dimensioni per acuti e dotato di Pronto Soccorso a Osimo, confluito dall’ASUR all’INRCA il primo gennaio 2018, uno a Fermo di area geriatrico-riabilitativa, mentre a Treia in Provincia di Macerata ha una piccola attività residenziale dentro l’Ospedale di Comunità dell’Azienda Sanitaria Territoriale di Macerata. Quest’ultima attività è stata collocata a Treia in attesa, ormai da molti anni, della ricostruzione della vecchia struttura residenziale INRCA di Appignano (sempre in provincia di Macerata). A un certo punto alla fine degli anni ’70 della rete degli Ospedali INRCA, nata come vedremo ad Ancona, facevano parte, oltre a quelli già nominati, anche gli Ospedali Geriatrici poi chiusi o trasferiti alle Regioni di competenza di Firenze (dove ce n’erano due), Cagliari e Roma mentre se ne dovevano costruire altri, cosa però mai avvenuta, anche a Torino e Genova.

Ma adesso parliamo dell’INRCA di Ancona, la cui appassionante storia viene ricostruita in un bellissimo libro del Professor Enrico Paciaroni pubblicato nel 2005 da “il lavoro editoriale” (L’INRCA: dall’Ospizio dei poveri e di mendicità alla ricerca geriatrica d’eccellenza). Qui la storia dell’INRCA viene fatta partire dalla costituzione nel 1844 ad Ancona dell’Ospizio dei Poveri e di mendicità, collocato presso alcuni locali nel complesso di San Francesco alle Scale. Da qui nel 1927 l’Ospizio venne trasferito alle Grazie dove oggi c’è l’Ospedale INRCA della Montagnola. All’inizio degli anni ’60 la storia dell’INRCA prende velocità grazie all’intraprendenza di un anconetano, Aurelio Paolinelli, Segretario dell’Ente, che avviò e guidò un percorso che portò l’INRCA nel giro di qualche anno ad aprire tutte le sedi ricordate in precedenza. Ad Ancona, oltre all’Ospedale della Montagnola intitolato al benefattore Cav. Ulderico Sestilli, l’INRCA ha la sede degli uffici amministrativi e dell’attività di ricerca economico-sociale nella splendida Villa Gusso al Passetto, dove opera anche un Centro Diurno Alzheimer (Centro Disturbi Cognitivi e Demenze, per la precisione), mentre alcuni Laboratori di Ricerca si trovano in un edificio in via Birarelli nel quartiere San Pietro pieno Centro Storico. Quest’ultimo edificio si trova dove una volta c’era l’Ospedale per i poveri indigenti annesso alla Chiesa di Sant’Anna dei Greci. Nel 1944 parte dell’edificio che ospitava questo Ospedale (già al tempo chiuso da oltre un secolo e mezzo) e la Chiesa furono distrutti da un bombardamento.

Murale sulla solidarietà intergenerazionale all’ingresso dell’Ospedale Geriatrico U. Sestilli
di Ancona

L’attuale Ospedale della Montagnola nacque a seguito dell’abbandono dell’Ospedale INRCA di Posatora danneggiato dalla frana del 1982, frana che causò a Posatora anche l’abbandono del vicino Ospedale Oncologico e di una struttura residenziale per anziani dell’INRCA , il Tambroni, poi ricostruito nell’area retrostante il vecchio Manicomio, area oggi sede degli uffici e degli ambulatori dell’Azienda Sanitaria. Purtroppo questa struttura subito dopo essere stata inaugurata nel 2005 non ha mai iniziato la sua attività per delle gravi carenze strutturali. Ad Ancona l’INRCA svolge anche una attività di “cure intermedie” (e cioè anch’essa di tipo residenziale) presso la struttura Residenza Dorica del gruppo privato Santo Stefano verso Ancona sud oltre al Centro Diurno Alzheimer presso Villa Gusso.

Ma quali sono le opportunità e le problematiche che la presenza dell’INRCA offre ad Ancona?
Partiamo dalla ricerca e dalla progettualità di tipo economico-sociale in cui l’INRCA ha grande esperienza e competenza. Ancora l'integrazione tra Comune di Ancona e INRCA non riesce ad essere sistematica su questi temi. È stato attivo fino all’esplosione della pandemia un Tavolo di lavoro del Comune di Ancona sugli Anziani, Tavolo che aveva prodotto già alcune proposte e di cui l’INRCA era stato protagonista attivo. Se si va però nel sito del Comune nella pagina dedicata agli Anziani nell’ambito delle attività del Servizio Politiche Sociali non compaiono progettualità che coinvolgono esplicitamente l’INRCA e anche nella presentazione dei progetti finanziati dal PNRR l’INRCA non viene citato. Va inoltre citata un'esperienza positiva che dura da alcuni anni di percorso integrato con il Comune per la dimissione protetta dei pazienti dall’Ospedale della Montagnola.

Sul versante sanitario abbiamo nell’INRCA di Ancona una grande opportunità (e relativi rischi) e un grande assente. La grande opportunità sono nel nuovo ospedale sotto Camerano ad Ancona sud, che integrerà le attività della Montagnola più quelle dell’attuale Ospedale di Osimo. Il grande assente è il territorio, dove si gioca la tutela della salute degli anziani e dove l’INRCA fa poca assistenza e di conseguenza fa poca ricerca.

Non si può in questa sede approfondire storia passata e realtà attuale dell’Ospedale INRCA di Ancona in termini di qualità dell’assistenza e della ricerca. Voglio solo ricordare che si tratta di una storia piena di figure di prestigio e di un presente con grandi professionalità. Non faccio elenchi per non correre il rischio di dimenticare qualcuno. Da ricordare invece che all’interno della Montagnola opera la Clinica di Medicina Interna e Geriatria dell’Università Politecnica delle Marche cui afferisce la Scuola di Specializzazione in Geriatria.

Il nuovo Ospedale è previsto con una dotazione di 296 posti letto (dato ufficiale della Regione) e cioè circa 30 in più di quelli di cui dispongono i due attuali ospedali che vi confluiranno che diventano circa 50 , e cioè una ulteriore ventina di più, se si tiene conto di quelli oggi effettivamente operativi (dati ricavabili dai Bilanci dell’INRCA). Tra questi 30-50 posti letto in più ce ne sono molti ad alto assorbimento di risorse umane, quali un nuovo reparto di terapia intensiva e un’area di terapia semintensiva che oggi mancano e due posti letto in più sia per l’unità coronarica che per la stroke-unit. Di questo potenziamento dell’INRCA io, che ho 70 anni (uno per ogni posto letto in più) e che dell’INRCA sono stato mediocre Direttore Sanitario, sono felice. Lo sarei anche di più se la Regione fosse in grado di dimostrare che oltre a rendere operativi tutti questi posti letto riuscirà anche a mantenere le promesse che sta facendo in giro sul potenziamento di tutti gli altri ospedali a Macerata, Senigallia, San Benedetto del Tronto, Pergola, insomma ovunque.

Murale a Capodimonte

Anche gli anconetani dovrebbero avere qualche domanda al riguardo perché con Torrette, il nuovo Salesi e il nuovo INRCA ci sarà il rischio per Ancona di non riuscire ad avere servizi territoriali adeguati. Il personale è limitato e di conseguenza o gli ospedali non lavoreranno a pieno regime o avranno attorno un territorio povero di servizi sociosanitari che farà pressione sui Pronto Soccorso e non riusciranno ad accogliere i pazienti in dimissione. Il rischio per gli ospedali di Ancona di diventare “cattedrali nel deserto” è molto alto. Quindi i nuovi Direttori di Torrette ed INRCA comincino a ragionarci. Con l’INRCA attuale di Ancona che chiude dove andranno i pazienti geriatrici acuti che non troveranno più l’Accettazione Geriatrica d’urgenza della Montagnola? Come si distribuiranno i due ospedali di Ancona le fratture di femore e la patologia chirurgica dell’anziano? Che accordi si prenderanno per garantire che Torrette faccia l’alta complessità e divida con l’INRCA di Ancona-sud la copertura della attività ospedaliera di base per i cittadini di Ancona (e delle altre città e cittadine della stessa area)? I due ospedali si faranno concorrenza o si integreranno? E se si integreranno, come avverrà questa integrazione? E soprattutto: dove si troverà il personale e come si spiegherà al resto della Regione tanta abbondanza ospedaliera (non solo di posti letto, ma anche di tecnologie?

Sempre sul versante sanitario c’è da decidere il destino del Tambroni e dei suoi posti letto residenziali. Si tratta di una partita sospesa da riprendere e chiudere perché comunque comporta costi e perché Ancona ha bisogno di quei posti letto. Il progetto del Tambroni potrebbe comportarere anche il “rientro” dei posti letto di cure intermedie che l’INRCA gestisce in spazi affittati dal Santo Stefano. Anche il Centro Diurno di Villa Gusso merita un’altra più idonea collocazione.

E infine c’è la questione degli immobili. Che fare della struttura in via Birarelli? Certamente le attività di ricerca di laboratorio che vi vengono svolte dovrebbero trovare spazio nel nuovo Ospedale, dove però non ci sono spazi per la Direzione e per gli uffici amministrativi attualmente in via Gusso. Sembra ragionevole un recupero nel tempo alla città anche di questo edificio di grande prestigio e storia.

Insomma, l’INRCA è un grande cantiere aperto e non solo in senso edilizio. C’è bisogno di un progetto INRCA di città (e di Regione, ovviamente) che dia una risposta alle questioni aperte e uno sviluppo alle potenzialità che l’Istituto può offrire alla città che l’ha fatto nascere. Un aiuto lo può, anzi lo deve, dare anche il Comitato di Partecipazione dell’INRCA, che comprende rappresentanti delle Associazioni dei cittadini ed è molto attivo e propositivo. Per concludere: buon lavoro al nuovo Direttore Generale, dottoressa Maria Capalbo, collega che conosco e apprezzo.

 

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Nella foto di copertina: Persone “di una certa età” in Piazza Roma (Foto di Enzo Gerini)


Ancona Città della Salute/3: L'ospedale di Ancona diventa l'Ospedale delle Marche

Il terzo capitolo parte del viaggio nel mondo della sanità anconetana ci porta a Torrette, dove gli Ospedali Riuniti si sono trasformati in "Azienda Ospedaliero-Universitaria delle Marche" diventando il primo e più importante ospedale della Regione. Da questa scelta scaturiscono innegabili vantaggi, ma anche alcuni rischi che Claudio Maffei, medico a riposo, ex docente universitario e dirigente della sanità pubblica, analizza per i lettori di A.

Il tema del “grande” ospedale di Ancona (quello che prima era l’Umberto I e oggi è “Torrette” presso il quale speriamo tra poco troverà spazio anche il nuovo Salesi) è essenziale per la nostra città. Da sempre Ancona ha avuto una vocazione ospedaliera, di cui abbiamo già avuto modo di parlare nel primo degli articoli di questa serie. Una vocazione che l’ha portata ad avere nelle Marche, prima l’unico Ospedale Regionale (quando ancora esisteva questa dizione), e poi ad essere sede della prima e unica Facoltà di Medicina.

Si può tranquillamente - credo - affermare che uno dei “primati” che tutta la Regione “civile” riconosce alla nostra città è proprio a livello di assistenza ospedaliera. Ma anche la Regione “politica” lo riconosce visto che, pur non avendo mai espresso negli ultimi trent’anni un Assessore alla Sanità, Ancona continua ad avere l’unico ospedale di II livello della Regione e quindi l’unico dotato di alte specialità, come ad esempio la cardiochirurgia, la chirurgia toracica, la chirurgia dei trapianti e il Centro Trauma Gravi. Caratteristiche che fanno essere il “nostro” ospedale anche l’unico della Regione con un Dipartimento di Emergenza e Accettazione di II livello con un servizio di elisoccorso e centro di riferimento di reti cliniche importantissime come quella neonatologica.

Per parlare del “nostro” ospedale vorrei usare come spunto di partenza la scelta di trasformare questa estate il nome della Azienda Ospedaliero-Universitaria “Ospedali Riuniti di Ancona Umberto I - G.M. Lancisi - G. Salesi” in “Azienda Ospedaliero-Universitaria delle Marche”.
Il cambio di denominazione è stato deciso dalla Direzione dell’Azienda d’intesa con l’Università Politecnica (a sua volta e non a caso “delle Marche”) all’indomani dell'approvazione da parte della Regione della (a mio parere sciagurata, ma questo è un altro discorso) Legge di Riforma della Sanità delle Marche che ha previsto la soppressione dell’altra Azienda Ospedaliera, quella di Marche Nord, che comprendeva i due ospedali di Pesaro e Fano. Essendo quella di Ancona rimasta la sola Azienda Ospedaliera della Regione, si è ritenuto opportuno rendere evidente anche nella sua denominazione questa unicità facendo così perdere il riferimento nel nome sia alla città che ai suoi tre ospedali storici (il Regionale Umberto I, il Cardiologico Lancisi e l’Ospedaletto Salesi). Si tratta di un caso quasi unico in Italia di Ospedale senza la città nel nome. Le intenzioni alla base del cambio di denominazione sono di per sé buone: rilanciare il ruolo unico e centrale dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria nella Regione.

Secondo me, taglio delle radici a parte (che pure conta), ci sono però alcuni possibili equivoci e altrettanti rischi in questa scelta di cambiare nome. Una scelta importante, come sapevano i Romani secondo cui “nomen omen”: il destino nel nome. Il primo equivoco riguarda il fatto che con il Salesi che va a Torrette (nome troppo locale per chiamare l’Ospedale delle Marche, ma noi continueremo a usarlo) e con l’INRCA che andrà sotto Camerano per gli anconetani quella di Torrette rimarrà l’unica struttura ospedaliera in città. Quella, ad esempio, con il Pronto Soccorso più vicino e più “robusto”, quella con l’offerta ambulatoriale più significativa e quella cui la maggioranza degli anconetani si rivolge per i problemi chirurgici più comuni oltre che per quelli più complessi. L’enfasi sulle sole attività di secondo e terzo livello che caratterizzano il ruolo “marchigiano” (e nazionale) dell’ospedale rischia di far perdere di vista l’importanza delle prestazioni di primo livello della parte dell’ospedale che dovrebbe servire gli anconetani, che infatti a Torrette trovano difficoltà di risposta ad esempio per la patologia chirurgica “minore” che minore non è per chi ne soffre (varici, cataratta ed ernie sono le prime che mi vengono in mente). Il primo rischio della nuova denominazione e della filosofia che la sostiene è dunque che per essere abbastanza “marchigiano” Torrette non ce la faccia più a essere abbastanza anconetano, quando gli anconetani continuano invece ad averne un gran bisogno.

Un secondo rischio è che la nuova denominazione enfatizzi il già pesante ruolo del governo regionale sulle scelte che riguardano il “nostro” ospedale e renda sempre più lontana e passiva la politica locale rispetto a queste scelte. Se l’Ospedale è delle Marche sarà naturale che sia la sola Regione Marche a deciderne i destini. Questa delega non la lascerei tutta in bianco. Il balletto di questi giorni sulla nomina del nuovo Direttore Generale del “nostro” Ospedale costituisce un esempio efficace (mentre scrivo il balletto non è ancora finito).

Terzo rischio: l'esibizione dell'unicità dell’Ospedale di Ancona come sede dell’unica Azienda Ospedaliera delle Marche può ostacolare la sua integrazione con il resto dei servizi. Per svolgere bene il suo ruolo regionale (e nazionale) l’Ospedale di Ancona ha bisogno di fare rete sia con i servizi territoriali locali che con tutta la rete ospedaliera della Regione, a partire dagli ospedali più vicini. Fare rete vuol dire avere obiettivi comuni e una operatività integrata senza competizione. Quindi più il profilo comunicativo dell’Ospedale sarà sobrio e la sua operatività sarà al servizio del sistema sanitario regionale e più la sua centralità verrà riconosciuta. Ricordiamoci che ancora Ancona e il resto della Regione non si amano molto.

Con lo stesso atteggiamento di sobrietà va vissuto il riconoscimento dato di recente all’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ancona, cioè delle Marche, come miglior ospedale pubblico d’Italia. Questo riconoscimento è frutto di una elaborazione dei dati di attività 2021 fatta da una Agenzia del Ministero della Salute. Questa elaborazione notoriamente non è in grado di fare “vere” classifiche perchè utilizza un sistema di indicatori che non copre molti aspetti della qualità dell’assistenza. Si tratta comunque di un ottimo segnale da vivere con la consapevolezza che i miglioramenti da apportare sono tanti e che chi lavora a Torrette o ci va per ricevere assistenza lo sa. Meglio evitare commenti trionfalistici che rischiano di farsi dire “cala giù da qul pajaro!”. Che è la versione anconetana di un invito all’understatement, insomma alla modestia.

Per concludere il ruolo dell’Ospedale di Ancona nella Regione dovrà essere sempre più (facciamo i moderni) “glocal” e quindi capace di concentrarsi contemporaneamente sulla dimensione locale e su quella globale regionale e nazionale. Colgo l’occasione per buttare lì un'idea: perché non trasformare Villa Maria in una sorta di Museo/Centro Studi sugli Ospedali di Ancona? Una storia che merita di essere studiata, conosciuta e meditata.

PS L’occasione è buona anche per fare gli auguri al Prof. Luigi Miti, storico primario della Medicina Generale dell’Umberto I, che il 30 dicembre ha compiuto 108 anni. Un monumento vivente, ancora lucido come sempre nella sua vita.

 

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Nella foto di copertina: L'Ospedale di Torrette


Ancona città della Salute / 2: Ospedale di Comunità all’Umberto I, costruite le mura, aspettiamo i contenuti

La seconda parte del viaggio nel mondo della sanità cittadina è incentrata sul vecchio Umberto I, inaugurato nel 1911 e chiuso nel 2003. Qui sorgerà uno dei due ospedali di comunità di Ancona. Ma che cosa prevede il progetto? E che cosa serve per far sì che tali strutture siano efficaci e virtuose? Ce ne parla Claudio Maffei, medico a riposo, ex docente universitario e dirigente della sanità pubblica

Il 20 novembre 1911 si inaugurava il vecchio Ospedale Umberto I di Ancona che nel 2003 chiuderà. Tra qualche tempo (mesi probabilmente, anni speriamo proprio di no) riaprirà con attività completamente diverse, che con l’ospedale non c’entrano e che anzi dovrebbero fortemente ridurre la necessità dei cittadini di Ancona di ricorrere ai suoi ospedali, nel frattempo trasferitisi quasi del tutto a Torrette (sia il vecchio Umberto I che il cardiologico Lancisi, mentre a breve -anche qui speriamo presto - seguirà il trasferimento dell’Ospedaletto dei Bambini Salesi). Nella prima parte del mio intervento ho descritto le motivazioni da riduzione nel numero degli Ospedali di Ancona e del loro spostamento del centro. In questo secondo articolo descriverò invece una parte importante del progetto di trasformazione del vecchio Umberto I.

La posa della prima pietra dell’Umberto I il 24 giugno 1906 alla presenza dei sovrani d’Italia (foto d’epoca)

 

Vediamo innanzitutto cosa prevede il progetto. Dai giornali locali apprendo che alla sanità saranno dedicati i due padiglioni all’ingresso dell’ex Umberto I. Uno ospiterà una Casa della Comunità, dove saranno tra l’altro trasferiti tutti i servizi presenti ora al Poliambulatorio del Viale della Vittoria, e uno ospiterà delle attività residenziali per gli anziani e un hospice. In questo articolo non entrerò nel dettaglio del progetto, che peraltro non conosco, e non farò polemiche sui ritardi vincendo la tentazione di confrontarli con quelli della realizzazione del primo vero Umberto I (credo sei anni, ma non lo voglio ricordare!). Parlerò invece della filosofia che ha ispirato la parte più interessante del progetto, quella che prevede la creazione di una Casa della Comunità, riservando a future occasioni la presentazione delle indicazioni progettuali di dettaglio, magari con il coinvolgimento delle due istituzioni interessate (Azienda Sanitaria Unica Regionale e Comune).

Partiamo da una banale premessa sotto forma di domanda: come facciamo oggi a rispondere ai problemi di salute dei cittadini con meno ospedali e meno posti letto? Nel caso di Ancona, come si fa a farsi bastare un solo ospedale, oltretutto non in centro? E’ evidente che perché la salute degli anconetani non ne risenta occorre che i servizi territoriali cambino e facciano cose che prima non facevano o non facevano abbastanza. Se impostiamo la questione così proviamo a vedere come il nuovo Umberto I, Casa della Comunità e non più ospedale, aiuterà a funzionare bene e a essere sufficiente il nuovo Ospedale Umberto I (con dentro ovviamente anche il Salesi e il Lancisi).

Vediamo da vicino cosa è una Casa della Comunità. Per dare un senso a tale struttura e alle sue funzioni ci conviene partire da un dato: il principale problema di salute che andrebbe gestito in modo diverso in Italia e nelle Marche per ridurre il carico di lavoro degli ospedali è quello delle malattie croniche. Si tratta di una serie di malattie che non possono guarire, ma possono essere prevenute e/o rallentate. Stiamo parlando delle malattie del cuore (come lo scompenso cardiaco), delle malattie croniche dell’apparato respiratorio, del diabete, dell’ictus, della ipertensione arteriosa, ecc. Sono malattie e condizioni che spesso sono presenti nella stessa persona contemporaneamente e che sono la principale causa di invalidità e di morte. Per queste malattie e condizioni si dovrebbe passare da un modello di risposta tradizionale in cui la persona se si aggrava si rivolge al suo medico di medicina generale e questo si rivolge nei casi più rilevanti allo specialista, ad un modello proattivo di solito identificato con il termine di sanità di iniziativa. In questo modello le persone con una condizione cronica vengono educate a gestire al meglio la propria condizione con l’aiuto dei familiari e quando la loro condizione si aggrava hanno a disposizione una equipe che se ne fa carico senza che lui o lei se ne debba più preoccupare. Si usa in questi casi il termine di “presa in carico” da parte dei servizi. Perché questa avvenga occorre superare la organizzazione tradizionale della medicina generale e della pediatria del territorio (la cosiddetta pediatria di libera scelta) in cui i medici tendono a lavorare ciascuno nel proprio ambulatorio di solito con poco personale di supporto amministrativo, per lo più amministrativo, e arrivare ad una organizzazione in cui i medici e i pediatri “di famiglia” lavorano in equipe assieme a infermieri (tra cui quelli corrispondenti alla figura nuova dell’infermiere di famiglia e di comunità), medici specialisti, psicologi, ostetrici, assistenti sociali e altri professionisti delle aree della prevenzione, della riabilitazione e tecnica. La struttura che ospita questa organizzazione deve offrire i suoi servizi nelle 12 ore diurne e con la Guardia Medica coprire le 24 ore. Ecco, abbiamo appena descritto la Casa della Comunità.

Questa delle Case della Comunità è una quasi novità del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che ne ha finanziate dal punto di vista edilizio 29 nelle Marche, di cui due ad Ancona, uno all’ex Umberto I e una all’ex CRASS. Le caratteristiche organizzative e funzionali di queste strutture sono state definite da un Decreto Ministeriale di recente approvazione. Il Decreto prevede in aggiunta a quanto già detto che le Case della Comunità siano sede di una forte integrazione tra i servizi sanitari e sociali, offrano assistenza domiciliare, ospitino le attività consultoriali, si rapportino con i servizi del Dipartimento di Salute Mentale, svolgano attività di prevenzione delle malattie (come gli screening dei tumori) e di promozione della salute e infine siano aperte ai cittadini e quindi anche al volontariato, alle associazioni dei cittadini e dei pazienti e ai cosiddetti caregiver, e cioè i familiari che partecipano attivamente al processo di assistenza ai loro cari.

Il pensiero di chi ha vissuto almeno da bambino la sanità di 50 anni fa, quella di prima della riforma del 1978 che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale (la Legge 833), corre a questo ai vecchi Poliambulatori dell’INAM, quello ad esempio in via Maratta vicino alla Chiesa del Sacro Cuore dove accompagnavo mia madre. No, la Casa della Comunità è un’altra cosa. E soprattutto non è solo una nuova struttura edilizia che dà una veste migliore e più funzionale ai servizi territoriali così come oggi li conosciamo, ma è molto di più e soprattutto è un modo diverso di occuparsi della salute dei cittadini. Pensiamo solo alla attività dei Medici di Medicina Generale, non più frammentata in tanti ambulatori individuali, ma trasformata in una attività integrata all’interno di una equipe multidisciplinare e multiprofessionale. Una vera rivoluzione che però va costruita, perché non basteranno dei muri nuovi a renderla possibile.

Perché le Case della Salute facciano quello che ci si aspetta da loro occorre che i servizi territoriali che vi dovranno confluire abbiano da una parte più risorse umane (se mancano quelle la nuova struttura rimarrà in parte vuota) e dall’altra sappiano costruire un modo nuovo di lavorare. Con mura nuove e teste vecchie, le Case della Comunità non andranno lontano. E quindi non cominceranno a funzionare quando l’ultimo muratore sarà uscito, bensì quando all’interno si comincerà a lavorare in equipe per garantire assistenza proattiva alle persone, lungo i loro percorsi assistenziali.

Finora ci si è occupati (politica compresa) soprattutto delle mura. Adesso è arrivato il momento di riempirla di risorse e cultura nuove. Ed è su questo che il dibattito pubblico e politico dovrebbe svilupparsi per non trovarsi, a lavori finiti, a dire: “beh, tutto qui?”

 

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Nella foto di copertina: L’ingresso dell’Ospedale Umberto I, anni 1925-1930 circa (Fondo Corsini)


Disagio minorile: più politiche sociali, meno drammi sui giornali

Sul tema del disagio minorile, che in questi ultimi tempi sta tenendo banco nella nostra città, accogliamo l'intervento di Andrea Nobili, avvocato, esperto di diritto di famiglia, Presidente della Camera minorile della provincia di Ancona ed ex garante regionale dei diritti dell'infanzia.

Negli ultimi tempi il tema della delinquenza giovanile attira enorme attenzione da parte dei media e, anche per questo, desta forte preoccupazione. La percezione diffusa è quella di una situazione che si avvicina pericolosamente ad una vera e propria emergenza sociale.
Il clima nelle Marche e ad Ancona è davvero quello narrato dalla stampa locale? Non si può nascondere che, purtroppo, un’escalation esiste. A confermarlo sono i servizi sociali che vedono crescere giorno dopo giorno il numero di ragazzi in carico e la mole di lavoro che è chiamata a svolgere la magistratura minorile, cui vanno riconosciuti meriti significativi. Perché quello minorile è uno dei pochi settori della giustizia in cui, nonostante la non adeguatezza dei mezzi, si cerca di applicare il dettato costituzionale del recupero del reo che, quando si tratta di giovanissimi, assume un valore ulteriore. Ciò attraverso istituti quali la messa alla prova, che sono diventati un modello positivo anche per gli adulti: è chiaro però che poter essere davvero efficaci necessitano di un’adeguata operatività.

Però, al tempo stesso, va denunciata una drammatizzazione eccessiva del tema, basti pensare all’enfasi sulla presenza massiccia di gruppi criminali nella nostra città. Si descrive una realtà in cui minorenni a rischio rappresentano una minaccia per la convivenza civile. Il tutto appesantito dall’abuso e dall’utilizzo inappropriato di termini quali bulli, baby-gang, carcere.
Ciò accade anche perché negli ultimi anni è cambiato radicalmente il clima nella pubblica opinione verso il disagio minorile, in particolare verso quello che sfocia nella trasgressione delle leggi. Con la politica che troppe volte preferisce semplificazioni securitarie a più complesse valutazioni sociali sulle cause che determinano le situazioni di devianza. E’ più facile applicare dispositivi di videosorveglianza e invocare interventi repressivi, piuttosto che elaborare progetti di politica sociale all’altezza della complessità dei tempi che stiamo vivendo.

La causa più frequente che spinge i ragazzi a commettere reati è legata alla fragilità del contesto familiare e sociale di appartenenza, ovvero a status di povertà materiale e culturale, che possono condurre all’emarginazione. E’ un dato di fatto che coloro che vivono in aree periferiche svantaggiate o appartengono a minoranze etniche incorrono in rischi maggiori.
E l’emergenza sanitaria, con le conseguenti imposizioni di disarticolazione sociale, ha prodotto un’inquietante accelerazione del disagio relazionale e psicologico di tanti giovani.

Gli adolescenti tendono ad accompagnarsi a coetanei con caratteristiche simili: può capitare che l’esigenza di sentirsi parte di un gruppo, induca l’adolescente a vivere in aggregazioni i cui componenti sono accomunati dal desiderio di essere rispettati dalla società, di trasgredire e di sentirsi invincibili. Tutto è più difficile, poi, quando gli appartenenti sono soggetti problematici, provenienti da contesti e situazioni sociali disagiati.

Una riflessione specifica va sviluppata sul versante delle politiche dell’integrazione dei giovani di origine straniera, che rappresentano una quota non del tutto banale del fenomeno di cui stiamo parlando. Il pericolo è che anche dalla nostri parti accada ciò che si sta verificando in città di maggiori dimensioni, con l’emergere di contesti devianti strutturati sulla base dell’appartenenza etnica.

Così come va sottolineato che se si è drasticamente abbassato il livello di percezione dell’illecito nei giovani, ciò è anche in conseguenza dei modelli aggressivi forniti dagli adulti, ripresi continuamente da film, serie televisive e canzonette varie. Con un’ulteriore distorsione provocata dal metaverso della rete, laddove reale e virtuale si sovrappongono e le conseguenze delle azioni si fanno sempre più sfuggenti.

Per provare a prevenire, arginare e combattere il dilagare ulteriore del fenomeno sono necessari progetti straordinari e misure adeguate, che supportino il ruolo delle famiglie e della scuola, il primo vero contesto in cui i ragazzi iniziano a costruire relazioni sociali. Vanno rafforzate le reti di sostegno sociale, potenziando le attività di psicologi, assistenti sociali, mediatori culturali, ricordandosi che l’intervento degli operatori di pubblica sicurezza e della magistratura penale andrebbe prevenuto, intervenendo convintamente sul versante sociale.
Occorre muoversi in controtendenza rispetto a quanto è accaduto nel tempo, tornando a credere e a investire in politiche sociali che forniscano opportunità di inclusione anche per i giovani più difficili.
La sfida non è semplice. Ma ci sono i punti cardinali che orientano una comunità che vuole davvero ritrovare se stessa e continuare ad affermare i valori della convivenza.

 


Foto: Dhruv via Unsplash