Ancona, città di perle inattese e tesori dormienti, ha bisogno di interventi di qualità
Affascinante quanto complessa, Ancona vive in precario equilibrio tra il “troppo bello” dei suoi monumenti e il “veramente brutto” di alcune “incomprensibili sovrastrutture”. La sfida: sfruttare i suoi contenitori spettacolari per valorizzare il potenziale culturale delle Marche. La penna acuta di Pippo Ciorra traccia la rotta di una città che vuole finalmente recitare un ruolo da capoluogo.
Abitare ad Ancona è un privilegio che bisogna meritarsi. Lo è per l’incredibile ricchezza morfologica della città, un coacervo irripetibile di colline, valli, scogliere, falesie, rive, banchine, ramblas, fortificazioni, monumenti che hanno richiesto anni e anni di silenziosa osservazione prima che mi sentissi in grado di ricostruirne un’immagine mentale tridimensionale, e forse anche una planimetrica. L’emblema percettivo della città per me era quello strano corso principale che va da mare a mare (e da secolo a secolo), lasciando interdetto il visitatore inesperto, e confondendo continuamente l’idea di dove si trovino il nord, il sud, eccetera. Ancona è un privilegio anche per la presenza di un grande porto e del disagio inevitabile che implica per la città (uno status che vale per tutte le città portuali). Si tratta però di un disagio che ha un’altra faccia straordinariamente positiva e stimolante. Non solo per le sue implicazioni economiche, certo non secondarie, ma perché costringe quotidianamente la città a fare i conti coi flussi di persone, la diversità di lingue, nazionalità, etnie, motivazioni, ambizioni. Un cuore dinamico e scontroso, insomma, che batte forte al centro del tessuto urbano, irradiando allo stesso tempo fascino, energia e problemi.
Il porto è quindi la sintesi perfetta della città, legato al mare, ostile e impenetrabile all’entroterra, stressato tra il troppo bello dei suoi monumenti e il troppo brutto di alcune sue sovrastrutture, pubblico e segregato allo stesso tempo, estroverso e pieno di (spazi) segreti. È forse il carattere che più distingue Ancona: un paesaggio dalla morfologia estrema e affascinante dove è quasi impossibile trovare un registro intermedio, uno spazio neutro che colmi la distanza vertiginosa tra i suoi pregi e i suoi difetti (urbanistici e architettonici). La città insomma conosce solo due registri: il bellissimo e il veramente brutto, con la conseguenza che chi la percorre è sottoposto a uno stress estetico continuo, che si può assorbire solo lentamente, con l’aiuto della conoscenza delle sue vicende, con la consapevolezza della sua geografia, con l’abitudine, con la capacità che si sviluppa di affezionarsi ai luoghi a prescindere dal loro aderire a un canone estetico tradizionale. Per molto tempo una delle mie “architetture anconetane” preferite era un benzinaio all’uscita sud della galleria Risorgimento, una macchia gialla che tagliava diagonalmente una collina e ricordava (alla lontana) certi edifici di Zaha Hadid. Convincemmo un fotografo importante (Olivo Barbieri) a farne un ritratto, che ovviamente conservo con amore. Poi il benzinaio ha cambiato gestore, il giallo è diventato un colore più anonimo, in vista è rimasta solo la piccola violenza alla pendice di una collina e addio effetto Hadid.
Quali sono i problemi più urgenti di Ancona (almeno nel campo della cultura urbana) e quali sono le azioni che si potrebbero mettere in campo per risolverli? Immagino che ci sia questo nella testa di chi mi ha chiesto questo testo. Non è una domanda difficile a cui dare risposta; quelle difficili, data la forma, la storia e la struttura della città, sono le risposte operative da proporre per ognuno dei problemi. Ancona ha certamente un problema di viabilità, legato appunto alla sua morfologia e al fatto che il porto è nel cuore della città. Ma è una questione che lasciamo volentieri agli esperti e agli urbanisti, davvero bravi, della città. Di certo, se si crede allo sviluppo ulteriore del porto, prima o poi un modo efficiente per collegarlo alle grandi infrastrutture andrà trovato. Per il resto, più che problemi Ancona ha molte opportunità ancora da cogliere, e forse su queste dovremmo puntare l’attenzione.
La prima, o per lo meno quella della quale per me è più facile parlare, è il rapporto tra cultura e città. Come tutte le città italiane Ancona abbonda di contenitori spettacolari. La Mole, la Polveriera, il Teatro delle Muse, il Palazzo degli Anziani, la Cittadella e via dicendo, distribuiti ai quattro angoli della città. Di queste il teatro è ovviamente quello con l’identità più consolidata, naturalmente legata a una vocazione comune a tutto il territorio regionale, oggetto di un intervento architettonico di qualità alla fine del secolo scorso e tuttora legato a un tessuto che continua a produrre eccellenze. L’urgenza per le Muse non implica invenzioni o cambi di rotta radicali, dipende solo dalla programmazione e dalla capacità di assicurare al teatro un buon management e budget adeguati. Diverso il discorso per gli altri contenitori ad alto tasso di heritage, soprattutto la Mole Vanvitelliana, isola sublime e accerchiata dall’aggressività portuale. La Mole per me rappresenta il termometro della potenzialità culturale della città. Finora lo sforzo -giusto- è stato di recuperarla e destinarla ad attività culturali (e formative). Ospita grandi mostre itineranti, alcuni festival interessanti, molti eventi. Forse il passo successivo potrebbe essere quello di rompere l’accerchiamento portuale estendendo l’aura della Mole oltre i confini della città, nella regione e nella città costiera adriatica transregionale.
Osservando le Marche ci si rende conto che esiste una produzione culturale e artistica polverizzata e instancabile, spesso di qualità alta o altissima, legata a questo o quel dispositivo locale (un’accademia, un gruppo di artisti, una facoltà, una galleria d’arte, una genealogia specifica). Una produzione che però va in parte dispersa o lascia poche tracce perché mancano punti di riferimento di scala maggiore, nazionale o internazionale, hub in grado di coagulare l’energia diffusa (con ovvie e ben note eccezioni relative per esempio ai festival musicali). Con gli studenti molte volte abbiamo vagheggiato in modo molto accademico di un museo dell’arte contemporanea regionale al Lazzaretto, o comunque al porto, imperniato sul lavoro dei maestri che hanno segnato questa regione, Licini, De Dominicis, Giacomelli, Cucchi, Pomodoro, tanto per cominciare. Forse è un’idea ingenua, difficile da attuare in una regione così plurale e così piena di autonomie da proteggere, ma è certo che se la città vuole mostrarsi capace di scavalcare le colline che la circondano e costruire un legame “da capoluogo” col suo territorio, allora forse è proprio sulla cultura che può e deve puntare, facendo del Lazzaretto -o di un altro dei suoi monumenti- il centro di una rete a cui non manca certo l’energia. La città insomma, oltre ad attirare e ospitare cultura, può essere più consapevole della sua capacità di produrla, e di farne un medium delle sue relazioni col mondo. La città peraltro ha esattamente la dimensione ideale da “sede di festival” importante, con una popolazione a metà tra Mantova e Modena, alcune sedi eccellenti, una corona di Comuni e località turistiche che costituiscono un bacino di utenza molto interessante.
Ancona ha una forte tradizione di (buona) urbanistica. La qualità dell’architettura e degli spazi urbani anconetani soffre invece di evidenti alti e bassi. Dagli splendori di alcuni edifici e piazze storiche si scivola verso un tono molto più variabile negli interventi moderni e contemporanei. Non mancano perle inattese (e non sempre riconosciute), come il mercato del pesce di Gaetano Minnucci o la lunga stecca inclinata di Sergio Lenci nelle aree della ricostruzione post-terremoto (che credo più amata da chi ci vive rispetto a chi la guarda), qualche cameo interessante nei quartieri esterni, e ovviamente siamo tutti pieni di gratitudine postuma per Danilo Guerri e Paola Salmoni per il restauro delle Muse. Ma non si può negare che l’impressione generale sia quella di una città in cui gli sforzi degli architetti sono un po’ oscurati da un continuum edilizio in media non particolarmente “bello”. Dipenderà forse dal fatto che mancano in città le tracce architettoniche tipiche del periodo tra le due guerre che troviamo in molti altri centri urbani importanti. Manca insomma l’eredità architettonica degli anni ’20 e ’30, e lo slancio di modernità degli anni ’50 è costretto a crescere su una tabula rasa e a basarsi su casi eccellenti e sporadici, senza affermarsi a sufficienza nel tessuto urbano. Tutto questo per dire che la città ha bisogno di interventi di qualità. Il porto, i molti edifici in attesa di progetto, i vecchi contenitori da restaurare o riciclare -viene in mente il Mercato delle Erbe- sono occasioni straordinarie, che la città dovrà cercare di cogliere per dare il senso di una consapevolezza del proprio ruolo e della fiducia nel futuro che devono competerle.
Ho omesso di scrivere di un altro sublime intreccio di cultura e spazio che segna lo splendore e il menu di problemi della città, vale a dire tutta l’area “in quota”, col Cardeto, i Fari, la zona archeologica e via dicendo. È una specie di tesoro dormiente e segreto della città, un parco storico di dimensioni monumentali di potenzialità smisurata. “Una fatica arrivarci” direbbe qualcuno, e ancora più difficile comunicarne al mondo (turisti, villeggianti, non-anconetani) l’esistenza e l’unicità. Forse è questa l’occasione per fare della “mobilità creativa” e provare ad applicare metodi di accessibilità non ortodossi: tapis-roulant, mini-funivie, navette elettriche, funicolari, ascensori che leghino la quota della città a quella del Cardeto e facciano del parco stesso uno dei contenitori possibili per una strategia oculata di eventi. Ancona insomma è bella e complessa, ma proprio nelle pieghe della sua complessità si possono trovare spazi e suggerimenti per risolvere alcuni problemi e per aprire nuovi scenari.
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Foto di copertina: splendida veduta della Mole Vanvitelliana di Francesca Bianchelli
Città che respira? Serve il coraggio della politica
La nostra intervista a Mirko Laurenti, curatore per Legambiente del rapporto Ecosistema Urbano che misura le performance ambientali dei capoluoghi di provincia italiani. Nel 2021 la fotografia di un Paese che fatica a stare al passo, non solo a causa della pandemia. E Ancona sprofonda in classifica…
Mirko Laurenti è il curatore, con Marina Trentin, dell’indagine di Legambiente Ecosistema Urbano, che ogni anno misura e racconta le performance ambientali dei capoluoghi di provincia italiani. L’ultimo rapporto, pubblicato nel novembre scorso, raccoglie i dati del 2020, un anno contrassegnato dall’emergenza Covid. Fotografa un Paese fermo dal punto di vista della vivibilità ambientale in ambito urbano, che addirittura regredisce sotto molti aspetti. Ma, come vedremo, non è solo colpa del Covid, non è tutta colpa del Covid.
Da 29 anni Ecosistema Urbano realizza una classifica basata su 18 parametri che valutano le performance delle varie città capoluogo del Paese in fatto di qualità dell’aria, delle acque, raccolta dei rifiuti, trasporti e mobilità, spazio verde urbano, efficientamento energetico, politiche ambientali in genere.
L’enorme lavoro portato avanti da Legambiente ha innescato negli anni un cambiamento profondo nel modo di misurare gli indicatori ambientali nelle città, è stato in grado di far leva sull’opinione pubblica e in molti casi di orientare le scelte della politica.
In un quadro generale assai critico, ha fatto rumore dalle nostre parti il crollo in classifica di Ancona, capace di perdere ben 29 posizioni rispetto all’anno precedente, passando dal 44esimo posto al 73esimo. Troppe auto in circolazione, troppe poche le piste ciclabili e le zone pedonali, troppi i morti lungo le nostre strade: queste le principali criticità rilevate, che purtroppo sono croniche. Pesano anche alcuni errori fatti nella comunicazioni dei dati, qualche mancanza nelle misurazioni, ma insomma è evidente che la nostra città avrebbe assoluto bisogno di rinverdire (è proprio il caso di dirlo) le politiche in tema di ambiente. E tanto avrebbe da fare anche in quanto alla capacità di comunicare con i cittadini. Saper trasmettere l’importanza di politiche virtuose e scelte di ampia prospettiva, incoraggiare comportamenti responsabili da parte dei cittadini, intercettare e sensibilizzare anche le fasce di popolazione più difficili da raggiungere, che poi quasi sempre sono quelle che hanno i maggiori problemi.
Delle azioni da mettere in campo, delle modalità e del coraggio necessario, abbiamo parlato con Mirko Laurenti.

Ciao Mirko, che quadro generale emerge dall’ultimo rapporto Ecosistema Urbano? Come sta l’Italia?
«Il report pubblicato a fine 2021 si basa su dati rilevati nel 2020, un anno particolare a causa della pandemia. Ne consegue che la foto scattata è abbastanza impietosa, ritrae ad esempio un Paese che ha abbandonato il trasporto pubblico. Attenzione però a dare la colpa solo alla pandemia, perchè se si leggono bene i numeri ci si accorge che non dappertutto la situazione è la medesima. Cito due casi, quelli di Milano e di Palermo, in cui pur nel disastro causato dal Covid, il settore dei trasporti pubblici ha tenuto botta e non è crollato come in quasi tutte le altre città d’Italia. Milano, lo sappiamo, è un caso a parte nella geografia del nostro Paese, è la città più europea anche dal punto di vista della mobilità. Già da diversi anni ha intrapreso un percorso che l’ha portata ad aumentare lo spazio destinato a pedoni e ciclisti, e contestualmente a limitare la circolazione di mezzi privati nelle aree del centro. Azioni che rispondono ad un preciso indirizzo politico. E queste azioni hanno fatto sì che anche nel momento in cui la circolazione dei mezzi pubblici era vietata a causa della pandemia, i cittadini abbiano reagito non riprendendo l’auto, ma optando ad esempio per le bici e i monopattini, visto che già era disponibile un efficiente servizio di sharing e le persone erano abituate ad utilizzarlo».
L’uso del monopattino e delle piattaforme di sharing è aumentato proprio durante la pandemia.
«Ecco, se possiamo trovare un lato positivo sulla mobilità di questo periodo è proprio questo. Certo solo per alcune città. Per il resto vediamo purtroppo un Paese statico, un Paese in cui l’inquinamento atmosferico fa rilevare ancora indici troppo alti».
Citavi anche il caso di Palermo.
«Sì, ovviamente una città che non ha nulla a che vedere con Milano, e che pure negli ultimi tempi ha investito sulla mobilità alternativa. E questi investimenti hanno fatto sì che durante la pandemia gli indici relativi al trasporto pubblico, certo ancora non esaltanti, non sono sprofondati, come invece purtroppo successo da altre parti».
Possiamo dire in generale che il Covid ha aggravato ancora di più una situazione già critica di suo.
«Sì, diciamo che il Covid ha accelerato le criticità già esistenti. Poi ci sono state città che hanno risposto meglio, come appunto Milano, oppure Trento, Reggio Emilia e Mantova, che infatti sono sul “podio” della classifica di Ecosistema Urbano. Altre città purtroppo sono state totalmente affossate dalla situazione d’emergenza. Palermo, nonostante quanto detto sopra, ha per altri versi numeri poco edificanti. O la stessa Torino, in cui gli indici di inquinamento sono allarmanti».
Eppure siamo stati a lungo in casa, in smart working, con le auto ferme in garage.
«Già, peccato che appena siamo usciti di casa abbiamo recuperato in fretta le cattive abitudini di prima, annullando in poco tempo gli effetti benefici del lockdown».
Le grandi città in Italia sono poche e rappresentano un’eccezione. Tra queste Roma è un caso ancor più particolare per tanti motivi. La maggior parte dei capoluoghi di provincia italiani fanno invece i conti con dimensioni più contenute, e tra queste vi è Ancona.
«Vero, la spina dorsale del nostro Paese è rappresentata da città medio piccole, favorite ad esempio da un carico di abitanti modesto, da un traffico ridotto, da minore inquinamento. Questo però dovrebbe spingerle a fare di più e meglio in tema di cura dell’ambiente, ad agire in modo più deciso approfittando delle situazioni favorevoli. Invece, a parte rare eccezioni, regna ancora un certo immobilismo».
Ecco, veniamo ad Ancona. Abbiamo visto che le nostre performance sono peggiorate rispetto al passato. Ciò si deve in parte ad una mancata (o errata) comunicazione dei dati che ci fa sembrare più “pecore nere” di quanto in realtà siamo, e in parte però a criticità effettive, in particolare sul tema della mobilità.
«Ancona paga un carico non secondario derivante dall’attività di un grande porto inglobato nel centro urbano, ma non c’è dubbio che potrebbe e dovrebbe fare di più. E già da parecchio tempo».
Se si guarda agli altri capoluoghi marchigiani, pesa il confronto con Pesaro, che invece viene citata come città virtuosa anche dalla stessa Legambiente. Però ad Ancona si usa spesso dire “qui non siamo a Pesaro” proprio per indicare alcune differenze sostanziali, specie nella conformazione del territorio e dell’urbanizzazione.
«Potrei citarvi però il caso di Macerata, cittadina non certo pianeggiante, in cui si nota negli ultimi tempi un’inversione di tendenza su aspetti importanti, come nuove zone ciclopedonali, maggiori limitazioni al traffico, investimenti in piantumazione e aree verdi. Per quanto invece riguarda Pesaro, certo è favorita da una posizione felice, ma non c’è dubbio che negli ultimi 12 anni le scelte strategiche di amministratori capaci e avveduti l’hanno portata ad essere presa d’esempio non solo nelle Marche, ma in Italia e all’estero. Pensiamo alla Bicipolitana, o alla vasta pedonalizzazione del centro storico, o al premio ricevuto da Legambiente per l’efficientamento energetico di una scuola».
Anche ad Ancona c’è una scuola totalmente autosufficiente dal punto di vista energetico. Ecco, non è che poi a volte pesa soprattutto la capacità e la bravura di sapersi raccontare?
«Può darsi. Pesaro ha certamente saputo comunicare molto bene le sue scelte anche se resta il fatto che le cose non le ha solo raccontate, le ha fatte per davvero e bene. Altri invece, proprio per paura di pagare pegno elettorale, rinunciano alle scelte più coraggiose e di prospettiva».
Il tema del coraggio della politica si lega necessariamente a quello del coinvolgimento dei cittadini. Tra i fattori evidenziati da Legambiente in tema di miglioramento energetico c’è la necessità di coinvolgere gli stakeholder e incentivare il dibattito pubblico. Vedi progressi da questo punto di vista negli ultimi anni?
«L’aspetto che è migliorato di più negli anni è proprio quello dell’attenzione che chi amministra rivolge alle istanze dei cittadini. Certo, in molti casi, è la legge a rendere obbligatorio tale ascolto, pensiamo ad esempio ai PUMS. Ciò significa che anche il legislatore centrale ormai è sempre più orientato verso modelli di partecipazione diffusa e di qualità».
Alcuni esempi?
«Penso al Grab di Roma, il Grande raccordo anulare delle biciclette. Un progetto lanciato a suo tempo da cittadini e associazioni, tra cui Legambiente, poi finanziato dal Ministero, e che ora sta per diventare realtà. E sarà un grande esempio di partecipazione, perché i cittadini sono stati coinvolti nella fase di progettazione e hanno apportato modifiche che hanno reso il tracciato senz’altro più fruibile e utile. Questo secondo me è un esempio di come si dovrebbero fare le cose. Un altro è la Tramvia di Firenze. Poi è evidente che non sempre la partecipazione viene incoraggiata, perchè potrebbe non giovare alla politica. Noto però che un po’ ovunque le cose stanno migliorando, sulla scia di quanto chiesto in primis da Legambiente, ma non solo. Negli anni hanno preso vita comitati di cittadini ottimamente organizzati, che si avvalgono della collaborazione di professionisti, in grado di sviluppare anche ottimi progetti di Citizen Science».
Va dato atto a Legambiente di essere riuscita negli anni a incentivare i Comuni a misurarsi e a raccontarsi. Questo è, tra gli altri, un grande merito. In Ecosistema Urbano potrebbero trovare posto indicatori che misurano il coinvolgimento dei cittadini e i progressi in fatto di Citizen Science, ovvero la capacità di stimolare cittadini a effettuare ricerche scientifiche e monitoraggi sulle città che abitano?
«Per quanto riguarda il tema della partecipazione, un indice esisteva poi lo abbiamo tolto perché vedevamo che più o meno i parametri erano rispettati ovunque, ma poi era difficile stabilire oggettivamente chi lo faceva bene e chi lo sbandierava soltanto. Stessa difficoltà più o meno potrebbe derivare dalla misurazione dei progetti di Citizen Science attivati in una determinata città. Ma chiaramente il tema della partecipazione è tra quelli che ci sta più a cuore e che monitoriamo sempre con attenzione anche attraverso strumenti come Ecosistema Urbano»
Città dei 15 minuti: secondo te è un miraggio, uno slogan buono per le campagne elettorali, o un orizzonte reale?
«Certamente un obiettivo alla portata. Se ci sta provando e riuscendo Milano, con tutte le difficoltà del caso, vuol dire che per le città più piccole e meno problematiche è ancora più fattibile. Ciò che Legambiente ha sempre rimarcato è che le città italiane non sono fatte per le auto. I nostri centri storici sono stati pensati e costruiti per un traffico di pedoni e cavalli, non certo per farci entrare 4mila macchine in un’ora. Quindi se c’è la volontà, è certamente possibile tornare alle città dei nostri nonni. Un’auto la si usa in media per fare tratte da 5-7 chilometri. Una distanza esigua, che può benissimo essere coperta con mezzi più virtuosi: a piedi, in bici, in autobus. Milano ci sta provando davvero, Gualtieri, il nuovo sindaco di Roma, in campagna elettorale ha fatto dichiarazioni impegnative in tal senso».
In campagna elettorale vale tutto!
«Certo, però è evidente che il tema è entrato ormai stabilmente nelle agende politiche, sui media se ne parla, le giovani generazioni hanno la questione molto a cuore e prima o poi bisognerà farci i conti. Secondo me sono tutti segnali molto importanti».
Anche perché ora forse il PNRR porterà nelle casse dei comuni soldi che negli ultimi anni non c’erano più.
«Esatto. A condizione che sia il PNRR dei sindaci e non solo del governo centrale. Non può essere Roma a dire ad esempio “dovete comprare più autobus”, perché sono i sindaci di Ancona, Como e Lecce a sapere se c’è bisogno di autobus o di altro».
A tal proposito, anche nei Comuni ci sarebbe bisogno di competenze tecniche e amministrative che spesso mancano.
«Vero e in questo caso i Ministeri dovrebbero migliorare nella comunicazione e nell’assistenza. Mettere effettivamente i territori nelle condizioni di decidere come spendere al meglio i soldi»
Poi serve la politica e il coraggio dei sindaci.
«Servono sindaci che non cerchino alibi e un governo che non fornisca alibi».
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Foto di copertina: uno scorcio del quartiere Archi di Francesca Bianchelli
Ancona città della Salute / 2: Ospedale di Comunità all’Umberto I, costruite le mura, aspettiamo i contenuti
La seconda parte del viaggio nel mondo della sanità cittadina è incentrata sul vecchio Umberto I, inaugurato nel 1911 e chiuso nel 2003. Qui sorgerà uno dei due ospedali di comunità di Ancona. Ma che cosa prevede il progetto? E che cosa serve per far sì che tali strutture siano efficaci e virtuose? Ce ne parla Claudio Maffei, medico a riposo, ex docente universitario e dirigente della sanità pubblica
Il 20 novembre 1911 si inaugurava il vecchio Ospedale Umberto I di Ancona che nel 2003 chiuderà. Tra qualche tempo (mesi probabilmente, anni speriamo proprio di no) riaprirà con attività completamente diverse, che con l’ospedale non c’entrano e che anzi dovrebbero fortemente ridurre la necessità dei cittadini di Ancona di ricorrere ai suoi ospedali, nel frattempo trasferitisi quasi del tutto a Torrette (sia il vecchio Umberto I che il cardiologico Lancisi, mentre a breve -anche qui speriamo presto - seguirà il trasferimento dell’Ospedaletto dei Bambini Salesi). Nella prima parte del mio intervento ho descritto le motivazioni da riduzione nel numero degli Ospedali di Ancona e del loro spostamento del centro. In questo secondo articolo descriverò invece una parte importante del progetto di trasformazione del vecchio Umberto I.

Vediamo innanzitutto cosa prevede il progetto. Dai giornali locali apprendo che alla sanità saranno dedicati i due padiglioni all’ingresso dell’ex Umberto I. Uno ospiterà una Casa della Comunità, dove saranno tra l’altro trasferiti tutti i servizi presenti ora al Poliambulatorio del Viale della Vittoria, e uno ospiterà delle attività residenziali per gli anziani e un hospice. In questo articolo non entrerò nel dettaglio del progetto, che peraltro non conosco, e non farò polemiche sui ritardi vincendo la tentazione di confrontarli con quelli della realizzazione del primo vero Umberto I (credo sei anni, ma non lo voglio ricordare!). Parlerò invece della filosofia che ha ispirato la parte più interessante del progetto, quella che prevede la creazione di una Casa della Comunità, riservando a future occasioni la presentazione delle indicazioni progettuali di dettaglio, magari con il coinvolgimento delle due istituzioni interessate (Azienda Sanitaria Unica Regionale e Comune).
Partiamo da una banale premessa sotto forma di domanda: come facciamo oggi a rispondere ai problemi di salute dei cittadini con meno ospedali e meno posti letto? Nel caso di Ancona, come si fa a farsi bastare un solo ospedale, oltretutto non in centro? E’ evidente che perché la salute degli anconetani non ne risenta occorre che i servizi territoriali cambino e facciano cose che prima non facevano o non facevano abbastanza. Se impostiamo la questione così proviamo a vedere come il nuovo Umberto I, Casa della Comunità e non più ospedale, aiuterà a funzionare bene e a essere sufficiente il nuovo Ospedale Umberto I (con dentro ovviamente anche il Salesi e il Lancisi).
Vediamo da vicino cosa è una Casa della Comunità. Per dare un senso a tale struttura e alle sue funzioni ci conviene partire da un dato: il principale problema di salute che andrebbe gestito in modo diverso in Italia e nelle Marche per ridurre il carico di lavoro degli ospedali è quello delle malattie croniche. Si tratta di una serie di malattie che non possono guarire, ma possono essere prevenute e/o rallentate. Stiamo parlando delle malattie del cuore (come lo scompenso cardiaco), delle malattie croniche dell’apparato respiratorio, del diabete, dell’ictus, della ipertensione arteriosa, ecc. Sono malattie e condizioni che spesso sono presenti nella stessa persona contemporaneamente e che sono la principale causa di invalidità e di morte. Per queste malattie e condizioni si dovrebbe passare da un modello di risposta tradizionale in cui la persona se si aggrava si rivolge al suo medico di medicina generale e questo si rivolge nei casi più rilevanti allo specialista, ad un modello proattivo di solito identificato con il termine di sanità di iniziativa. In questo modello le persone con una condizione cronica vengono educate a gestire al meglio la propria condizione con l’aiuto dei familiari e quando la loro condizione si aggrava hanno a disposizione una equipe che se ne fa carico senza che lui o lei se ne debba più preoccupare. Si usa in questi casi il termine di “presa in carico” da parte dei servizi. Perché questa avvenga occorre superare la organizzazione tradizionale della medicina generale e della pediatria del territorio (la cosiddetta pediatria di libera scelta) in cui i medici tendono a lavorare ciascuno nel proprio ambulatorio di solito con poco personale di supporto amministrativo, per lo più amministrativo, e arrivare ad una organizzazione in cui i medici e i pediatri “di famiglia” lavorano in equipe assieme a infermieri (tra cui quelli corrispondenti alla figura nuova dell’infermiere di famiglia e di comunità), medici specialisti, psicologi, ostetrici, assistenti sociali e altri professionisti delle aree della prevenzione, della riabilitazione e tecnica. La struttura che ospita questa organizzazione deve offrire i suoi servizi nelle 12 ore diurne e con la Guardia Medica coprire le 24 ore. Ecco, abbiamo appena descritto la Casa della Comunità.
Questa delle Case della Comunità è una quasi novità del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che ne ha finanziate dal punto di vista edilizio 29 nelle Marche, di cui due ad Ancona, uno all’ex Umberto I e una all’ex CRASS. Le caratteristiche organizzative e funzionali di queste strutture sono state definite da un Decreto Ministeriale di recente approvazione. Il Decreto prevede in aggiunta a quanto già detto che le Case della Comunità siano sede di una forte integrazione tra i servizi sanitari e sociali, offrano assistenza domiciliare, ospitino le attività consultoriali, si rapportino con i servizi del Dipartimento di Salute Mentale, svolgano attività di prevenzione delle malattie (come gli screening dei tumori) e di promozione della salute e infine siano aperte ai cittadini e quindi anche al volontariato, alle associazioni dei cittadini e dei pazienti e ai cosiddetti caregiver, e cioè i familiari che partecipano attivamente al processo di assistenza ai loro cari.
Il pensiero di chi ha vissuto almeno da bambino la sanità di 50 anni fa, quella di prima della riforma del 1978 che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale (la Legge 833), corre a questo ai vecchi Poliambulatori dell’INAM, quello ad esempio in via Maratta vicino alla Chiesa del Sacro Cuore dove accompagnavo mia madre. No, la Casa della Comunità è un’altra cosa. E soprattutto non è solo una nuova struttura edilizia che dà una veste migliore e più funzionale ai servizi territoriali così come oggi li conosciamo, ma è molto di più e soprattutto è un modo diverso di occuparsi della salute dei cittadini. Pensiamo solo alla attività dei Medici di Medicina Generale, non più frammentata in tanti ambulatori individuali, ma trasformata in una attività integrata all’interno di una equipe multidisciplinare e multiprofessionale. Una vera rivoluzione che però va costruita, perché non basteranno dei muri nuovi a renderla possibile.
Perché le Case della Salute facciano quello che ci si aspetta da loro occorre che i servizi territoriali che vi dovranno confluire abbiano da una parte più risorse umane (se mancano quelle la nuova struttura rimarrà in parte vuota) e dall’altra sappiano costruire un modo nuovo di lavorare. Con mura nuove e teste vecchie, le Case della Comunità non andranno lontano. E quindi non cominceranno a funzionare quando l’ultimo muratore sarà uscito, bensì quando all’interno si comincerà a lavorare in equipe per garantire assistenza proattiva alle persone, lungo i loro percorsi assistenziali.
Finora ci si è occupati (politica compresa) soprattutto delle mura. Adesso è arrivato il momento di riempirla di risorse e cultura nuove. Ed è su questo che il dibattito pubblico e politico dovrebbe svilupparsi per non trovarsi, a lavori finiti, a dire: “beh, tutto qui?”
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Nella foto di copertina: L’ingresso dell’Ospedale Umberto I, anni 1925-1930 circa (Fondo Corsini)
La grande sfida: coinvolgere la comunità nella trasformazione della città
Il presidente di Action Aid Davide Agazzi è uno dei massimi esperti italiani di innovazione e imprenditoria sociale. Abbiamo parlato con lui delle sfide che attendono le città dopo la pandemia, e delle potenzialità dei centri di medie dimensioni
Davide Agazzi è uno dei massimi esperti italiani di innovazione e imprenditoria sociale, molto attento ai percorsi di sviluppo territoriale e alle forme di collaborazione tra soggetti pubblici e privati. Ha ricoperto incarichi in una metropoli come Milano ma in questi ultimi due anni è stato anche protagonista di un laboratorio di innovazione urbana a Brindisi che ha destato attenzione e apprezzamento tra chi segue questi processi.
Quest’estate Agazzi è stato ospite ad Ancona di Orbite Fest, l’evento conclusivo di un progetto volto alla sperimentazione di nuovi modelli di aggregazione giovanile e alla valorizzazione di spazi rigenerati. In quell’occasione lo abbiamo conosciuto e lui molto generosamente ci ha dato disponibilità a ritrovarci per una intervista. Ed eccoci dunque a parlare dei temi di cui Davide Agazzi si occupa da sempre e che sono al centro del nostro approfondimento. Cominciamo proprio chiedendogli se secondo lui una città di medie dimensioni come Ancona, che ha molti tratti di somiglianza con Brindisi, può essere terreno fertile di sperimentazioni in questo campo.
«L’ultimo anno e mezzo -risponde- ci ha portato a rimettere in discussione tanti aspetti delle nostre vite che davamo per scontati. Dalla qualità delle nostre relazioni agli spazi delle nostre case, passando per le modalità con cui svolgiamo quotidianamente i nostri lavori. Ci siamo trovati a domandarci, forse per la prima volta dopo un decennio di torpore, chi volevamo incontrare e perché. Il Covid ci ha sbattuto in faccia vecchie e nuove esigenze. E ci ha fatto guardare diversamente alle città in cui viviamo. Quelle grandi hanno mostrato tutto il loro lato disumano e tutti i loro limiti, rispetto alla qualità degli spazi pubblici e privati, soprattutto per chi ha meno. Quelle medie hanno riscoperto di avere ancora qualche cartuccia da sparare, in una competizione sfrenata tra territori in cui fino a pochi mesi fa sembravano destinate a soccombere. Il concetto della “città dei 15 minuti” che va ora molto di moda ed è visto come una panacea per tutti i mali a mio modo di vedere significa prevalentemente una cosa: che le grandi città hanno capito che per essere competitive devono essere più umane. Non è detto che ce la facciano però. Al contempo, le città medie e piccole si devono chiedere cosa vuol dire essere “più città”, come fare ad agganciarsi a quelle dinamiche che le collegano di più ai grandi flussi di conoscenze e capitali. Si apre così ora una partita tutta nuova, che ruota principalmente attorno ad una questione: il lavoro. È sempre questa, se ci pensiamo, la forza chiave che ha guidato la trasformazione dei nostri territori. L'industrializzazione si è portata dietro le fabbriche e le periferie urbane, l’economia della conoscenza ha premiato la densità delle grandi città metropolitane. Cosa succederà oggi, grazie
alle tecnologie digitali che ci consentono di lavorare in modalità sempre più slegate dalla necessità di stare fisicamente in uno stesso luogo nello stesso momento, per collaborare? Passa da qui anche lo scontro tra grandi aree metropolitane e città medie. Il fatto che l’Europa abbia costruito la sua fortuna proprio su queste ultime ci può far ben sperare. Ma la partita è tutta da giocare. Ed i terreni fertili di sperimentazione si riveleranno tali solo se ci saranno abbastanza sperimentatori».
Molti spazi pubblici hanno perso nel tempo le loro funzioni e oggi sono al centro di progetti di rigenerazione e rifunzionalizzazione con risorse significative che lo Stato assegna ai comuni. Il coinvolgimento delle comunità interessate da questi processi è come sappiamo molto importante. Com’è possibile rendere effettiva ed efficace la partecipazione e l’ingaggio dei cittadini evitando, come spesso accade, azioni meramente di facciata utili solo ad infiocchettare idee preconfezionate? E, nelle diverse fasi dell’intervento di rigenerazione urbana, in quali tempi la partecipazione dovrebbe essere attivata e che cosa ci si dovrebbe aspettare dai processi di coinvolgimento civico?
«Il coinvolgimento delle comunità è essenziale per rendere qualsiasi progetto di rigenerazione un potenziale innesco per un processo di trasformazione urbana. Altrimenti stiamo parlando solo di meri appalti per opere pubbliche, piccole o grandi che siano. Che sono importanti, in un momento in cui questi settori sono in sofferenza, ma non determinano discontinuità significative. Quello di cui abbiamo bisogno invece è che questa nuova ondata di investimenti sia da stimolo per nuove progettualità a livello urbano. Il tema quindi non è solo coinvolgere la cittadinanza, la società civile e le forze sociali ed economiche nei processi decisionali. La vera sfida è coinvolgere tutti nella realizzazione di progetti che siano il più possibile innovativi. E, badate bene, anche in questo caso, non si tratta di una concessione, ma di una nuova necessità. Perché i progetti di rigenerazione comprendono mix di funzioni nuove, forme di interazione con pubblici differenti, necessità di trasformare porzioni di territori in luoghi di vita e di lavoro. E questo possono farlo solo realtà capaci di abitare ed interpretare questi spazi in maniera contemporanea, trasformandoli in magneti per nuovi percorsi di sviluppo. Per cui, la partecipazione non va solo intesa in fase consultiva, nel momento in cui si prendono decisioni sulle destinazioni d’uso. Ma va contemplata e praticata anche e soprattutto in fase di implementazione e di gestione di spazi ibridi, per fare in modo che gli investimenti che si riverseranno sui nostri territori possano trasformarsi in occasioni di generazione di valore pubblico, associando sempre più energie attorno a nuove visioni di città».
Concordi con coloro che sostengono che enormi vantaggi possono derivare dalla componente digitale che, anziché spingere verso l’individualizzazione delle persone e la loro chiusura nel privato, può invece -se governata e indirizzata- favorire quella prossimità relazionale e funzionale tra le persone che è alla base della nuova visione della città?
«Il digitale è una brutta bestia. Perché moltiplica le nostre capacità e opportunità e ci rende la vita più semplice. Ma si porta dietro tante nuove insidie di cui spesso diventiamo consapevoli solo troppo tardi. È uno di quei terreni in cui la realtà delle cose è molto più avanti della nostra capacità di comprenderle e regolarle. Le tecnologie digitali di per sé non fanno altro che aiutarci ad assecondare i nostri desideri. E tra questi c’è sicuramente quello di incontrare altre persone. Non è certo responsabilità delle nuove tecnologie se le nostre società si sono atomizzate, se le nostre famiglie si sono rimpicciolite e se a volte viviamo in palazzi o vie in cui non conosciamo i nomi e le storie dei nostri vicini. Anzi, dobbiamo riconoscere che, proprio in questo contesto, alcune app ci aiutano a ricostruire dei legami inediti, su basi diverse. E che quando il pubblico decide di investire fortemente in questa direzione, dotandosi di strumenti di partecipazione e democrazia deliberativa, si scopre una grande voglia di contribuire alla vita pubblica che evidentemente era rimasta inespressa. Pensate solo al successo che hanno avuto le più recenti campagne referendarie grazie alla possibilità di sostenerle con una firma digitale. Poi però dobbiamo avere anche il coraggio di parlare degli aspetti più inquietanti di questo mondo, che non hanno solo risvolti psicologici e sociali (isolamento, nuove dipendenze, nuove forme di abuso), ma che hanno a che vedere con le forme dell’economia e della società (nuovi monopoli di fatto, nuove forme di controllo sociale, violazioni della privacy, nuove forme di sfruttamento del lavoro). È un tema che merita tutta la nostra attenzione e nuove forme di investimento in educazione, a partire dalla scuola primaria. Perché i nostri figli già oggi stanno crescendo in un mondo che ormai ha pochissimo a che vedere con quello che conosciamo».
Le esperienze di coinvolgimento dei cittadini nei percorsi di rigenerazione di spazi pubblici/privati o di riorganizzazione di alcuni servizi e reti di prossimità vengono spesso viste come bei propositi che durano però solo il tempo del progetto e i cui effetti svaniscono nel medio termine. Che ne pensi? Ci sono pratiche che ci dimostrano il contrario?
«La cosa da mettere a fuoco è che il coinvolgimento in termini di partecipazione a processi di consultazione non basta più. Quella parte di società capace di esprimere, anche in potenza, maggiori interessi e competenze, non si accontenta più di essere consultata, ma chiede il potere di co-decidere e chiede di essere coinvolta nella realizzazione dei progetti più significativi. E si comporta così perché si rende conto, consapevolmente o meno, di essere un ingrediente essenziale per la buona riuscita di un progetto. Per come si sono messe le cose, questo, dal mio punto di vista, è senz’altro vero. Per cui chiunque voglia gestire un processo di trasformazione urbana capace di produrre occasioni di sviluppo a livello territoriale deve porsi il problema di come gestire processi di attivazione e partecipazione lungo tutto il ciclo di vita di un processo, dalla fase di ideazione e progettazione di un determinato luogo fino alla sua gestione operativa, avendo cura di mantenere alta una certa tensione vitale anche durante l’apertura dei cantieri di realizzazione. Le esperienze più mature in questo senso vengono dalla Francia. Parigi ha sperimentato, attraverso i bandi di “Reinventing Cities”, poi ripresi dalle principali città del mondo attraverso il network C40, modalità di sollecitazione di interessi privati molto efficaci. Attorno alle aree dismesse da riqualificare non ci si limita a promuovere manifestazioni di interesse o concorsi di idee. Piuttosto viene strutturata una procedura a più fasi in cui si chiede a chi partecipa di costruire delle cordate che sin dall’inizio tengano insieme finanziatori, progettisti, architetti, realtà del territorio e soggetti che si candidano a gestire le principali funzioni inserite in una ipotesi di rigenerazione. I bandi poi prevedono esplicitamente criteri di valutazione orientati alla qualità ambientale e sociale, e premiano chi propone utilizzi temporanei delle aree oggetto di trasformazione, nelle fasi che precedono e accompagnano i quartieri. In questo modo si stimola una competizione al rialzo, che privilegia creatività e capacità di creare alleanze territoriali».
I progetti di rigenerazione di spazi pubblici e/o privati, che ne ridefiniscono funzioni, valore e senso, in molti casi assegnano agli stessi nuove finalità di tipo culturale, sociale o anche turistico. Ciò è in linea con una visione che riconosce a questi settori un valore prioritario nella costruzione della comunità e del tessuto sociale. Ritieni che possano essere settori fertili anche sotto il profilo economico ed occupazionale? C’è un circolo virtuoso che lega questi settori alla competitività delle città, alla loro capacità attrattiva e dunque al loro sviluppo economico?
«Si tratta di funzioni essenziali in questa fase storica, in cui il mantra condiviso sta diventando, almeno a parole, quello della prossimità e della qualità della vita. Funzioni che rientrano a pieno titolo, insieme a scuole, biblioteche e presidi socio sanitari, all’interno del più ampio concetto di “infrastruttura sociale”, che abbiamo capito essere una componente fondamentale della tenuta sociale ed economica delle città. Le infrastrutture sociali, contribuendo a rispondere ai bisogni di base di un territorio, contribuiscono a sostenere una parte di economia per sua natura radicata a livello locale, costituendo allo stesso tempo sia elementi di equità, attrattività e competitività, che anche bacini occupazionali in espansione. Dobbiamo però fare attenzione ad un aspetto che ad oggi non è ancora pienamente messo a fuoco. Il nostro obiettivo, come pianificatori di percorsi di sviluppo, dovrebbe essere quello di promuovere diversità e vitalità a livello economico e sociale. Non possiamo pensare di passare da una monocultura all’altra, di sostituire un modello di economia industriale con uno basato esclusivamente su turismo e cultura. Abbiamo già visto che così non funziona. Dobbiamo invece avere l’ambizione di far crescere un settore accanto all’altro, rendendoli più sostenibili e capaci di produrre valore condiviso, completando idealmente una nuova matrice produttiva molto più complessa e articolata. C’è bisogno del contributo di tutte e tutti per affrontare le sfide che il XXI secolo ci pone».
Davide Agazzi ha 40 anni, una laurea specialistica in Analisi e Politiche dello Sviluppo Locale e Regionale presso l’Università degli Studi di Firenze, e una laurea triennale in Relazioni Pubbliche e Pubblicità presso l’Università IULM di Milano. È esperto di sviluppo locale, innovazione sociale e processi di rigenerazione urbana. È il co-fondatore di From, partner strategico e creativo per la trasformazione urbana. Attualmente è presidente di ActionAid Italia, organizzazione che si batte contro la povertà e l’ingiustizia nel mondo. È tra i fondatori del Comitato “Ti Candido - il potere della democrazia” che si impegna a ridurre le barriere all’ingresso del mondo politico. Ha ricoperto incarichi di responsabilità in società di consulenza, think tank, associazioni ed amministrazioni locali.
Questo articolo è contenuto in A: numero 1 / dicembre 2021 – Foto: Francesca Tilio
Il tempo della riappropriazione
È in corso un vivace processo di ripensamento del paradigma urbano che costringe le città a scegliere a cosa voler assomigliare e a quale immaginario tendere nel prossimo futuro
A scala umana, della prossimità, dei quindici minuti. Policentrica, flessibile, circolare, resiliente: il dibattito contemporaneo su come saranno le città e i territori dopo il Covid-19 pullula di ipotesi e definizioni nuove, a testimonianza che la città - data per spacciata durante la pandemia - è tutt’altro che morta. Al contrario, è in corso un vivace processo di ripensamento del paradigma urbano che costringe le città a scegliere a cosa voler assomigliare e a quale immaginario tendere nel prossimo futuro. Per alcune si tratta di una scelta naturale, l’esito di percorsi civici, politici e amministrativi che vanno avanti da anni (pensiamo a Milano, Bologna, Palermo). Per altre, dalla ridotta densità (intesa non solo in termini di popolazione, ma soprattutto di opportunità di lavoro e attività) e/o dalla vocazione meno nitida, la sfida è più faticosa e tutt’altro che banale. Come raccoglierla dunque? Sembra emergere con forza una parola d’ordine, su tutte: “riappropriazione”. In senso figurato, del tempo e delle relazioni, per una città della prossimità. Ma anche tangibile e concreto: riappropriazione di quartieri, aree dismesse, strade e piazze da parte degli abitanti. Che da Nord a Sud chiedono di poter partecipare a scelte e processi urbani, in un rinnovato “corpo a corpo” con i luoghi della loro quotidianità. Si aprono così scenari nuovi, che diventano l’occasione per dare concretezza alle politiche place-based anche in città di piccole e medie dimensioni. Rispetto a questi scenari dove si colloca Ancona? Dopo qualche decennio di torpore e disinteresse generalizzati dei cittadini verso le dinamiche urbane, negli ultimi anni la città ha conosciuto un progressivo risveglio, concretizzatosi in progettualità che sono state in grado di intercettare il rinnovato desiderio di protagonismo civico e dare nuova linfa ai quartieri: esperienze come Arcopolis agli Archi, Palombellissima alla Palombella, Direzione Parco a Vallemiano sono solo alcuni - ma significativi - esempi, curati dall’associazionismo locale (tradizionalmente molto diffuso ad Ancona), spesso senza alcun sostegno da parte dell’Amministrazione locale - quanto meno nelle loro fasi iniziali. Quest’ultimo aspetto non sorprende: l’Amministrazione condivisa, basata sugli istituti della co-programmazione e della co-progettazione, è un orizzonte da noi ancora distante e dunque progettualità come quelle succitate sono di fatto lasciate completamente in mano al terzo settore e alla sua capacità di intercettare risorse ad altri livelli (crowdfunding, risorse statali o private). Tutto ciò testimonia uno scarso interesse verso i processi di rigenerazione urbana come azione strategica, una scarsa consapevolezza circa le potenzialità delle dinamiche di riappropriazione sopra citate e un disallineamento con la parte più viva e competente della comunità che, come ci ricorda Davide Agazzi nel suo contributo, «non si accontenta più di essere consultata, ma chiede il potere di co-decidere e chiede di essere coinvolta nella realizzazione dei progetti più significativi. E si comporta così perché si rende conto, consapevolmente o meno, di essere un ingrediente essenziale per la buona riuscita di un progetto». L’assenza dell’Amministrazione locale dietro agli interventi di riattivazione di comunità di maggior successo ad Ancona, così come l’insufficiente attenzione rivolta alla co-progettazione con i gruppi sociali ed economici, rappresenta una forte criticità che si ripercuote sulla capacità della città di affrontare con successo le sfide delle trasformazioni urbane. Ecco perché ad Ancona si avverte l’esigenza di “infrastrutture di cittadinanza”, luoghi dove connettere bisogni quotidiani, aspirazioni collettive e comunità. Dove coltivare e potenziare la cittadinanza attiva, luoghi a cui ci si riferisce anche come “nuovi centri culturali”: una definizione ampia che comprende e accomuna spazi anche molto eterogenei, spesso frutto di percorsi di rigenerazione urbana che vedono la Pubblica Amministrazione implementare formule innovative di gestione, accanto al privato e alla cittadinanza attiva. Un’esigenza, seppur generalizzata e diffusa, che non sempre si concretizza in pratiche; spesso sono necessari interventi “dall’alto” per sbloccare il potenziale di un territorio, come testimoniano buone pratiche tra cui quella di Palazzo Guerrieri a Brindisi. Ecco allora un ulteriore terreno di sperimentazione e innovazione che può far leva sui vuoti urbani presenti ad Ancona, intercettando risorse anche dal PNRR, programma che dedica ampio margine, di spesa e manovra, agli interventi di rigenerazione sui territori. La scommessa è aperta. Ci sono oggi le condizioni per recuperare il campo perduto e per invertire la rotta. Le risorse economiche non mancheranno. Servirà il coraggio di usare metodi e pratiche diversi da quelli sin qui praticati e di gestire i processi di trasformazione urbana puntando su competenze, attivazione e partecipazione della comunità e innovazione sociale.
Questo articolo è contenuto in A: numero 1 / dicembre 2021 – Foto: Francesca Tilio